Le prime lacrime sul concorso del Festival di San Sebastián arrivano con A Hundred Flowers del giapponese Genki Kawamura, adattato dal suo stesso romanzo pubblicato nel 2019. Un’opera che riesce nell’impresa cinematografica di far convivere la dirompente forza emotiva di un dramma familiare e una tenera, sottile profondità.

Quando la sera di San Silvestro Izumi (Masaki Suda) trova la madre Yuriko (la star del cinema giapponese Mieko Harada) a zonzo in un parco, capisce fin troppo in fretta che qualcosa non va. La diagnosi di Alzheimer piove sulla sua testa facendo da contraltare alla felicità di una paternità imminente: dalle ecografie della moglie, Izumi passa alle visite neurologiche di una madre che sta rapidamente perdendo la sua autonomia.

 

Yuriko ha cresciuto suo figlio sola, abbandonata di fatto da un marito che ha inseguito il successo professionale lontano dalla famiglia.

Le visite alla casa di riposo in cui Yuriko deve essere trasferita, però, fanno emergere un contrasto che stride in modo sempre più rumoroso per Izumi: quello fra la memoria della madre che svanisce e il ricordo personale – una ferita aperta che ancora sanguina – di quell’anno in cui, ai tempi del liceo, proprio sua madre lo aveva lasciato per andarsene temporaneamente con un altro uomo.

Un trauma mai superato. Ma ormai che è troppo tardi per chiedere spiegazioni o per avere delle scuse. Quanto è difficile perdonare?

Accompagnato dalle melodie del pianoforte che Yuriko suonava da giovane, A Hundred Flowers intreccia passato e presente in un flusso narrativo di rara precisione stilistica: i fiori che appassiscono in casa e che la madre amava sostituire, i silenzi di chi ha perso la parola o di chi non sa come esprimersi, la rabbia repressa che ora tace e ora erutta, quando ormai non c’è più niente da fare.

Kawamura usa con virtuosismo il piano sequenza inseguendo Yuriko in un labirinto che da fisico diventa mentale, riuscendo a restituire sia lo smarrimento psichico sia l’incapacità (o la paura) di comprenderlo. Le variazioni sul tema di un minuetto di Bach, che finisce per ripetersi diventando uguale a se stesso, lo mostrano meglio di mille artifici narrativi.

Ma è con il finale che A Hundred Flowers raggiunge l’apice, con due scene di inattesa potenza in cui la sceneggiatura, scritta dallo stesso Kawamura sulla base di esperienze autobiografiche a quattro mani con Hirase Kentaro, raggiunge una tenerezza sincera, mai artefatta, di disarmante dolcezza.

Sogno e ricordo si sovrappongono e possono confondersi. È la forza visiva di un’immagine – quei fuochi d’artificio che madre e figlio guardavano pur tagliati a metà dal palazzo di fronte – a fare chiarezza: tenendo vivo un brandello della memoria di lei e risvegliando quella di lui, in parte sopita.

Notevole la fotografia di Keisuke Imamura, ora terrea, ora inaspettatamente luminosa.

In sala, a San Sebastián, il pubblico si passava i fazzoletti. Il Festival non è nemmeno a metà, ma il film si impone come uno dei più validi per il medagliere. Mieko Harada meriterebbe già la Conchiglia d’argento.



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